Sul reportage (raccontare storie con le fotografie)
Inviato: lun set 07, 2015 4:17 pm
Per molto tempo ho cercato di capire come fare una buona fotografia. Non ci sono regole che garantiscano una buona fotografia, se non che l’immagine deve raccontare, smuovere, colpire, sollevare interrogativi. Se poi questi risultati si ottengono applicando o violando la regola dei terzi, questo dipende dalla fotografia stessa.
Appena ho cominciato ad avere una pur vaga idea di come fare una buona foto, quindi sostanzialmente a scartare tutte quelle immagini che non avevano nessuna necessità di esistere in quanto tali, mi è venuta in mente l’idea di provare a raccontare per serie di immagini.
Ed è stata la mia rovina. Mi è venuto il dubbio che raccontare con le serie potesse essere più facile. Probabilmente invece è infinitamente più difficile. Perché in fondo, provando e riprovando, qualche singola fotografia “giusta” la si riesce anche a tirare fuori. Ma tirare fuori una serie di fotografie buone, e che oltretutto formino un racconto coerente sembra difficilissimo.
Girando in libreria ho trovato un libro di Michele Dalla Palma sul fotoreportage e su come raccontare per immagini. Il libro contiene due capitoli che di solito in questi manuali non si trovano: l’etica del fotoreportage e la filosofia del fotoreportage. L’autore è un alpinista e fotografo che propone una trattazione a tutto campo della costruzione di storie per immagini. Non è che poi, applicando tali regole, si diventi un perfetto narratore per immagini, ma almeno si possono stabilire alcuni elementi fondamentali. Poi dipende da noi e dal nostro talento.
Dalla Palma, che è un seguace di Ansel Adams in particolare per quanto riguarda la previsualizzazione, propone tanti elementi che ho provato a mettere in relazione con il modo con cui ho (mal)fotografato negli ultimi decenni.
Alcune cose sembreranno ovvie, mi sembra interessante il quadro complessivo nel quale inquadrare il processo fotografico narrativo che mi ha aiutato a capire meglio.
I tre pilastri del racconto:
Il fotoreporter deve conoscere le storie da raccontare perché le vive in prima persona, sperimentandole sulla propria pelle. Deve entrare in punta di piedi nella cultura di un altro, cercando di comprenderla almeno nelle sue linee elementari e farsi accettare come presenza, aliena ma non ingombrante né invasiva, prima di pensare a scattare un solo fotogramma. È importante, imparare a non fotografare. Lo scatto è solo l’atto finale del percorso per conoscere ciò che si vuole raccontare.
Penso che Nicola abbia fatto una grandissima esperienza in questo, per esempio nel suo “alla fine del viaggio”. Anche Simone si è cimentato nel racconto fotografico, con vino e asparagi.
Sergio ci ha fatto vedere una magnifica serie, che oltre a raccontare la storia di un villaggio ci ha portato indietro di oltre quaranta anni. “Amara e bella” ha tutti gli elementi del reportage ed anche la patina della storia.
Questo è uno degli elementi della “invisibilità”: il fotografo deve farsi prima accettare dagli aspiranti protagonisti del racconto con pazienza e delicatezza in quanto essere umano, per superare la fase di diffidenza e di curiosità, per poi essere ignorati perché non più interessanti. Un approccio di assoluto rispetto per l’altro per fargli capire che è solo la sua benevolenza che consente la presenza del fotografo e gli permette di scattare le sue fotografie.
Si deve muovere lentamente, fermandosi spesso e mostrandosi sinceramente interessato a ciò che succede intorno, lasciando la fotocamera nella borsa. Sono importanti gli sguardi ed i gesti per trovare l’intesa tra il (potenziale) fotografo ed i soggetti, cercando di far capire che l’interesse non è ad un souvenir fotografico, ma al soggetto stesso ed a ciò che sta facendo.
Dalla Palma ha lavorato molto in Africa, in Asia, ma il concetto, come vedremo, si applica anche a un gondoliere veneziano: se vogliamo raccontare con un’immagine il più possibile credibile e la meno artefatta possibile, dobbiamo essere invisibili.
Mi sembra che esistano grandissime similitudini tra la costruzione di un reportage fotografico e la struttura del testo di un racconto scritto. Io, che scrivo molto, ho un approccio molto definito:
Pensando al mio approccio alla fotografia, posso individuare molti degli elementi che Dalla Palma suggerisce. Il problema è li ho sempre applicati in maniera casuale e scollegata. E poi resta la difficoltà di espressione visuale, dell’uso del linguaggio fotografico.
Inoltre, essere in un luogo e scattare cosa colpisce il mio occhio non è sufficiente a creare – anche a posteriori – il filo logico di un racconto. Guardando le mie fotografie la maggior parte di esse sembrano costruite passivamente, forse anche se sono previsualizzate, e c’è un controllo maggiore su cosa è dentro e cosa resta fuori dalla composizione. Ma data la mancanza all’origine di una costruzione coerente del racconto, esse restano sostanzialmente slegate l’una dall’altra.
Certo, in particolare nelle mie fotografie fatte nella casa famiglia negli anni 80 e 90 è molto presente l’aspetto della mia integrazione nel contesto. Non sono arrivato come fotografo, ma sono stato accettato prima come persona e poi quando ho cominciato a fare fotografie, dopo molto attendere. Ma quello stesso gruppo – non un racconto – di immagini manca degli elementi introduttivi che presentano il contesto ed è completamente privo di dettagli. Si basa piuttosto su una serie di ritratti e su uno sparuto gruppo di immagini che provano a descrivere l’interazione tra i soggetti e l’ambiente.
L’indicazione che ho ricavato per me è di provare a strutturare un tema ed i punti salienti del suo sviluppo, vedremo se riuscirò a combinare la capacità di strutturare con la creazione di serie di fotografie coerenti. Non è affatto scontato. Un possibile approccio può essere articolato così:
Si fotograferà dopo.
Non tutte le fotografie raccontano una storia. Non tutte le serie raccontano allo stesso modo. La sfida è inserire in ciascuna immagine quel tenue, o forte, elemento di collegamento con le altre fotografie.
(continua).
Appena ho cominciato ad avere una pur vaga idea di come fare una buona foto, quindi sostanzialmente a scartare tutte quelle immagini che non avevano nessuna necessità di esistere in quanto tali, mi è venuta in mente l’idea di provare a raccontare per serie di immagini.
Ed è stata la mia rovina. Mi è venuto il dubbio che raccontare con le serie potesse essere più facile. Probabilmente invece è infinitamente più difficile. Perché in fondo, provando e riprovando, qualche singola fotografia “giusta” la si riesce anche a tirare fuori. Ma tirare fuori una serie di fotografie buone, e che oltretutto formino un racconto coerente sembra difficilissimo.
Girando in libreria ho trovato un libro di Michele Dalla Palma sul fotoreportage e su come raccontare per immagini. Il libro contiene due capitoli che di solito in questi manuali non si trovano: l’etica del fotoreportage e la filosofia del fotoreportage. L’autore è un alpinista e fotografo che propone una trattazione a tutto campo della costruzione di storie per immagini. Non è che poi, applicando tali regole, si diventi un perfetto narratore per immagini, ma almeno si possono stabilire alcuni elementi fondamentali. Poi dipende da noi e dal nostro talento.
Dalla Palma, che è un seguace di Ansel Adams in particolare per quanto riguarda la previsualizzazione, propone tanti elementi che ho provato a mettere in relazione con il modo con cui ho (mal)fotografato negli ultimi decenni.
Alcune cose sembreranno ovvie, mi sembra interessante il quadro complessivo nel quale inquadrare il processo fotografico narrativo che mi ha aiutato a capire meglio.
I tre pilastri del racconto:
- • La contestualizzazione. Vi presento il mio palcoscenico, il luogo, dove si svolge l’azione che voglio presentare, le storie che voglio raccontare, dove si muoveranno i miei attori.
• L’interazione uomo-ambiente. Le immagini che mostrano come si muovono ed interagiscono i protagonisti della nostra storia. Deve essere la parte più viva e dinamica del racconto fotografico, nella quale le azioni degli uomini ci presentano la loro anima e l’anima del luogo che abitano. Le fotografie di questo pilastro approfondisce la relazione dei protagonisti con il territorio ed i loro segni.
• I dettagli della scena. Quei particolari che approfondiscono sia il contesto, sia come interagiscono l’uomo e l’ambiente.
Il fotoreporter deve conoscere le storie da raccontare perché le vive in prima persona, sperimentandole sulla propria pelle. Deve entrare in punta di piedi nella cultura di un altro, cercando di comprenderla almeno nelle sue linee elementari e farsi accettare come presenza, aliena ma non ingombrante né invasiva, prima di pensare a scattare un solo fotogramma. È importante, imparare a non fotografare. Lo scatto è solo l’atto finale del percorso per conoscere ciò che si vuole raccontare.
Penso che Nicola abbia fatto una grandissima esperienza in questo, per esempio nel suo “alla fine del viaggio”. Anche Simone si è cimentato nel racconto fotografico, con vino e asparagi.
Sergio ci ha fatto vedere una magnifica serie, che oltre a raccontare la storia di un villaggio ci ha portato indietro di oltre quaranta anni. “Amara e bella” ha tutti gli elementi del reportage ed anche la patina della storia.
Questo è uno degli elementi della “invisibilità”: il fotografo deve farsi prima accettare dagli aspiranti protagonisti del racconto con pazienza e delicatezza in quanto essere umano, per superare la fase di diffidenza e di curiosità, per poi essere ignorati perché non più interessanti. Un approccio di assoluto rispetto per l’altro per fargli capire che è solo la sua benevolenza che consente la presenza del fotografo e gli permette di scattare le sue fotografie.
Si deve muovere lentamente, fermandosi spesso e mostrandosi sinceramente interessato a ciò che succede intorno, lasciando la fotocamera nella borsa. Sono importanti gli sguardi ed i gesti per trovare l’intesa tra il (potenziale) fotografo ed i soggetti, cercando di far capire che l’interesse non è ad un souvenir fotografico, ma al soggetto stesso ed a ciò che sta facendo.
Dalla Palma ha lavorato molto in Africa, in Asia, ma il concetto, come vedremo, si applica anche a un gondoliere veneziano: se vogliamo raccontare con un’immagine il più possibile credibile e la meno artefatta possibile, dobbiamo essere invisibili.
Mi sembra che esistano grandissime similitudini tra la costruzione di un reportage fotografico e la struttura del testo di un racconto scritto. Io, che scrivo molto, ho un approccio molto definito:
- • Definisco il titolo, che poi sintetizza il tema;
• Introduco il mio lettore al tema, alla situazione che voglio trattare;
• Definisco l’articolazione e lo sviluppo del tema
• Espongo le conclusioni.
Pensando al mio approccio alla fotografia, posso individuare molti degli elementi che Dalla Palma suggerisce. Il problema è li ho sempre applicati in maniera casuale e scollegata. E poi resta la difficoltà di espressione visuale, dell’uso del linguaggio fotografico.
Inoltre, essere in un luogo e scattare cosa colpisce il mio occhio non è sufficiente a creare – anche a posteriori – il filo logico di un racconto. Guardando le mie fotografie la maggior parte di esse sembrano costruite passivamente, forse anche se sono previsualizzate, e c’è un controllo maggiore su cosa è dentro e cosa resta fuori dalla composizione. Ma data la mancanza all’origine di una costruzione coerente del racconto, esse restano sostanzialmente slegate l’una dall’altra.
Certo, in particolare nelle mie fotografie fatte nella casa famiglia negli anni 80 e 90 è molto presente l’aspetto della mia integrazione nel contesto. Non sono arrivato come fotografo, ma sono stato accettato prima come persona e poi quando ho cominciato a fare fotografie, dopo molto attendere. Ma quello stesso gruppo – non un racconto – di immagini manca degli elementi introduttivi che presentano il contesto ed è completamente privo di dettagli. Si basa piuttosto su una serie di ritratti e su uno sparuto gruppo di immagini che provano a descrivere l’interazione tra i soggetti e l’ambiente.
L’indicazione che ho ricavato per me è di provare a strutturare un tema ed i punti salienti del suo sviluppo, vedremo se riuscirò a combinare la capacità di strutturare con la creazione di serie di fotografie coerenti. Non è affatto scontato. Un possibile approccio può essere articolato così:
- • Tentare di focalizzare, seppur per grandi linee, l’idea del racconto.
• Tratteggiare, sempre per grandi linee quali possono essere i punti di sviluppo. La storia si può definire anche immediatamente prima di raccontarla, osservando e assorbendo ciò che vediamo. È fondamentale capire il più velocemente possibile i tempi di svolgimento dell’azione umana, diversi per quanto diverse sono le anime del mondo.
• È possibile provare a documentarsi prima, sviluppando una sequenza concettuale di massima della storia per immagini.
Si fotograferà dopo.
Non tutte le fotografie raccontano una storia. Non tutte le serie raccontano allo stesso modo. La sfida è inserire in ciascuna immagine quel tenue, o forte, elemento di collegamento con le altre fotografie.
(continua).