di Ruscelli, Salgado e dell'India che non c'e'
Inviato: gio feb 21, 2008 7:33 am
Ed ecco qualcosa che mi offre il destro per partecipare a cio’ che colpevolmente avevo trascurato qualche giorno fa, che e’ la fotografia dell’ Altrove.
Proviamo per ora a sdoganarci dall’atto fotografico, cercando di considerarlo la conclusione tangibile del processo piu’ lungo e complesso dell’osservare e sentire; si tratta invero di una finalizzazione molto “occidentale” anche quando la praticano i giapponesi, essendo una forma di “capitalizzazione”, sotto forma di registrazione e conservazione, dell’esperienza vissuta. E si potrebbe partire per la tangente insinuando che la capitalizzazione digitale suggerisce un mutare dell’esperienza dell’osservare-sentire verso la quantita’ a scapito della qualita’ (cosa che richiede maggiore capacita’ di registrazione) o che la maggiore agilita’ di registrazione e’ imposta dal moltiplicarsi del numero di esperienze cui si e’ soggetti in una sola vita oggi, mentre l’uso di uno strumento di capitalizzazione non ad hoc quale il cellulare potrebbe diffamare sulla incapacita’ di affrontare la responsabilita’ dell’esperienza percettiva in modo maturo e consapevole, e di lasciarne una grossa parte ludica a comandarne l’azione.
Ma, dicevo, fermiamoci a monte dell’atto di fotografare e, collegando senza acrobazie Mauro a Varanasi e Salgado nel posto in cui sara’ in questo momento, cerchero’ di dire la mia sul Viaggio, e la fotografia ne diventa solo un piccolo corollario.
Ingredienti: Ruscelli e Salgado, Bruce Chatwin, Luis Sepulveda, Pierre Loti, Colin Thurbon, io (miserere), molti altri viaggiatori, ecc.
Disclaimer: io mi associo a questa schiera esclusivamente per sottolineare che le mie sono opinioni personali, non mi sogno neppure da lontano...vabbe’ inutile neanche dirlo...
Allora, allora: cominciamo dal cosa si cerca quando si viaggia, che si viaggi col corpo, con la mente o, meglio ancora, con entrambi.
Molta gente di quella elencata sopra (tutti, a dire il vero, me compreso), quando viaggia non si sogna nemmeno di cercare di “capire”: viaggiare per capire e’ , a mio parere, una ipocrisia stantia. Io non capisco perche’ i miei dirimpettai vogliono tagliare i platani sulla strada, pero’ vado in Kazakstan e, magari con la presunzione consentitami dal fatto di lavorarci, “cerco” di capire (prego notare che “comprendere” e’ addirittura un passo oltre). Follia. Ma c’e’ di peggio: vado, ma siccome voglio “capire” prima leggo tutto al riguardo. Poi vado la’, vedo che e’ tutto diverso (Rush) da quello che ho visto e letto prima di arrivare e rimango comprensibilmente interdetto; ricordo il mio disappunto quasi rabbioso quando, giovane imbevuto di National Geographic, mi avventavo nei vicoli di Marrakesh nella vana ricerca di una location che non rigurgitasse di zainetti dei Pokemon. Ma i Pokemon erano dappertutto, e a pieno diritto: erano i miei preconcetti che non avevano diritto di essere li e pretendere una realta’ diversa (Avedon) che si genuflettesse al mio obiettivo.
Piano, piano, negli anni ho cominciato a comprendere alcuni concetti che ora, nella confusione generale del mio essere, sono inscindibili dal “viaggio”:
timore
sconcerto
ribrezzo
stanchezza
flusso
flusso
flusso
curiosita’
spaesamento
incontro
sollievo
mistero
mistero
mistero
Per me viaggiare e’ “andare” prima di tutto, e poi, molto, molto semplicemente solo “esserci”. Ed e’ viaggiare vero solamente quando sei solo, perche’ solo allora cogli appieno te stesso: non il mondo circostante, ma te stesso, e l’anomalia che tu rappresenti in quell’istante preciso, in quel preciso punto del pianeta.
Ed e’ allora, e solo allora che le tue percezioni si acuiscono, e cogli si, alla fine, ma cogli sempre quello che tu sei, non quello che hai visto. E quando cogli quello che hai gia’ visto prima di partire (il turista...) anche questo ti dice chi sei.
Insomma il viaggio non e’ comprensione, ma deliziosa, angosciosa esposizione di se’ al flusso di accadmenti estranei, una languida resa allo spaesamento, la gioia selvaggia ma prudentemente imbrigliata dell’esserci, il timore dell’incontro e il sollievo del dopo l’incontro, la curiosita’ per il diverso e il ribrezzo per il troppo diverso.
Le conoscenze personali, le letture precedenti, sono il remo per assecondare la corrente, non la scienza per comprenderne le cause, e il fine, il vero fine, sta nell’assaporare il momento, nell’avvertire, in un momento di percezione accentuata, il suolo straniero sotto la suola, il sole innaturalmente caldo sulla delcata pelle del collo, l’artiglio del gelo che ti assale sulla porta, le tue gambe, le tue gambe che costruiscono con tanta o poca energia il tuo immisurabile spostamento sul pianeta, tanto immisurabile quanto foriero di galassie di sensazioni diverse separate da pochi passi.
E questo era per parlare dell’India, che di per se’ probabilmente e’ un paese fremente di attivita’ economica (compresi i Sadhu, come hai visto bene) e cosciente del proprio speciale momento (India Unbound) che da un secolo ormai e’ quasi sicuramente avvezza a dare allo straniero (Karma Cola) esattamente quel che lui va cercando, dalla illuminazione spirituale alla commozione per gli emarginati, vera multinazionale di se stessa. Emarginati per chi ? Anche qui c’e’ rischio di una visione preconcetta: loro sono emarginati perche noi li consideriamo tali. Loro in realta’ vivono cosi, semplicemente (e non parliamo delle caste...). Vorrebbero stare meglio ? Anche io, agli occhi di Bill Gates, sono un povero merdone sfruttato con compensi da fame da un sistema di management da operetta.
Dunque, il viaggio come mistero. Il Viaggio e’ da soli, o con un “fixer” locale che non deve essere una guida professionista, se non per quei minuti strettamente necessari in quella particolare occasione, senno’ e’ vacanza, e in vacanza si devono avere diverse pretese: la stanza pulita, la Coca Cola Light (avrei una storia...), il tassista che non ti frega, il souvenir.
Tutte opinioni personali.
Un passo oltre, sempre con la macchina fotografica nella borsa.
Viaggiamo, s’e’ detto, e osserviamo, e di conseguenza sentiamo.
Dato per scontato che almeno qui siamo onesti e sinceri (senno’ c’e il Milan in TV) tutti, compreso Salgado, diciamo che quindi quello che noi vediamo (alcuni di noi hanno la loro attenzione attratta da certe cose, altri da altre) non e’ la realta’ (Avedon...) ma la nostra rappresentazione, necessariamente filtrata da noi stessi, verso noi stessi della realta’ stessa. Vediamo, “mettiamo dentro” la visione, la impastiamo con il “chi siamo” , con le nostre esperienze precedenti di vita, le nostre letture, le convinzioni etiche, morali e religiose che abbiamo, e poi “mettiamo agli atti” del nostro spirito una sensazione finale (non definitiva, solo finale). E credo che questo, se non fa giustizia perche’ non voglio arrogarmene il diritto, dovrebbe chiudere anche il discorso su cosa si fotografa e chi si fotografa (le belle ragazze, i “rovinati”, l’architettura, il paesaggio...), perche’ la domanda diventa oziosa: si fotografa quello che “si vede” compreso, caro Rush, il non voler fotografare. Le tue immagini sull’India, che a me piacciono in quanto le trovo disarmantemente oneste, sono lampanti fotografie sul non voler fotografare.Detto questo, va da se che non solo Rush, ma nessun’altro e’ Salgado. Ma non perche’ Salgado faccia belle le cose brutte, ma perche’ ognuno di noi e’ assolutamente se stesso, almeno quando ha la percezione. Poi, magari dopo la estrinseca uniformandosi a un codice, e talvolta questo codice gli e’ estraneo (o nemico...), ma questa e’ un’altra storia ancora.
Nel caso di Salgado, e credo in questo di interpretare il pensiero di Stefani, ma comunque quello che segue e’ il mio pensiero, nel caso di Salgado c’e a monte la profonda religiosita’ con forti ubriacature sincretiche di tutto il sudamerica, la visione biblica della vita di tutti i giorni, la manifestazione di Dio sotto forma di bellezza inaspettata, un grande teatro della vita che fa di una stessa immonda epidemia di vaiolo in un momento lo strumento per ridicolizzare la distinzione in caste, in un altro una saggia arma del destino, in un altro un inopinabile biglietto di transito della natura e della storia, in un altro ancora lo strumento divino della catarsi di una puttana (sto parlando di Jorge Amado, Teresa Batista stanca di guerra ) e via andare.
Salgado, a mio parere (e qui ci metto il link, o vado fuori tema) si muove “rappresentando” , in modo informato e cosciente ma evitando di trarre giudizi assoluti (Nachtwey lo fa, di sicuro) ed opponendo alla visione preconcetta e opportunamente rimossa dal timore e dal ribrezzo del fruitore occidentale (timore e ribrezzo che Nachtwey si incarica di riconfermare...), una altra visione della tragedia, una visione che, con sottile sconcerto e spaesamento da parte nostra, fa emergere un certo stato di grazia anche nei luoghi e momenti piu’ impensati, a suggerire una permeazione del mistero divino in tutti i viventi e nel flusso delle loro esistenze, fossero essi un garimpero appoggiato a un palo come un moderno crocefisso, o una nonna balcanica che accudisce la nipote con gesto elegante sotto un’ improvvisato riparo di nylon trasparente.
L’incontro con la fotografia di Salgado puo’ davvero essere rassicurante, di primo acchito, una forma di sollievo di ritorno, ma a lungo andare sconcerta e fa riflettere, anche sul livello minimo di necessita’ che l’umano abbisogna per poter sopravvivere.
A me Salgado fa viaggiare....
Proviamo per ora a sdoganarci dall’atto fotografico, cercando di considerarlo la conclusione tangibile del processo piu’ lungo e complesso dell’osservare e sentire; si tratta invero di una finalizzazione molto “occidentale” anche quando la praticano i giapponesi, essendo una forma di “capitalizzazione”, sotto forma di registrazione e conservazione, dell’esperienza vissuta. E si potrebbe partire per la tangente insinuando che la capitalizzazione digitale suggerisce un mutare dell’esperienza dell’osservare-sentire verso la quantita’ a scapito della qualita’ (cosa che richiede maggiore capacita’ di registrazione) o che la maggiore agilita’ di registrazione e’ imposta dal moltiplicarsi del numero di esperienze cui si e’ soggetti in una sola vita oggi, mentre l’uso di uno strumento di capitalizzazione non ad hoc quale il cellulare potrebbe diffamare sulla incapacita’ di affrontare la responsabilita’ dell’esperienza percettiva in modo maturo e consapevole, e di lasciarne una grossa parte ludica a comandarne l’azione.
Ma, dicevo, fermiamoci a monte dell’atto di fotografare e, collegando senza acrobazie Mauro a Varanasi e Salgado nel posto in cui sara’ in questo momento, cerchero’ di dire la mia sul Viaggio, e la fotografia ne diventa solo un piccolo corollario.
Ingredienti: Ruscelli e Salgado, Bruce Chatwin, Luis Sepulveda, Pierre Loti, Colin Thurbon, io (miserere), molti altri viaggiatori, ecc.
Disclaimer: io mi associo a questa schiera esclusivamente per sottolineare che le mie sono opinioni personali, non mi sogno neppure da lontano...vabbe’ inutile neanche dirlo...
Allora, allora: cominciamo dal cosa si cerca quando si viaggia, che si viaggi col corpo, con la mente o, meglio ancora, con entrambi.
Molta gente di quella elencata sopra (tutti, a dire il vero, me compreso), quando viaggia non si sogna nemmeno di cercare di “capire”: viaggiare per capire e’ , a mio parere, una ipocrisia stantia. Io non capisco perche’ i miei dirimpettai vogliono tagliare i platani sulla strada, pero’ vado in Kazakstan e, magari con la presunzione consentitami dal fatto di lavorarci, “cerco” di capire (prego notare che “comprendere” e’ addirittura un passo oltre). Follia. Ma c’e’ di peggio: vado, ma siccome voglio “capire” prima leggo tutto al riguardo. Poi vado la’, vedo che e’ tutto diverso (Rush) da quello che ho visto e letto prima di arrivare e rimango comprensibilmente interdetto; ricordo il mio disappunto quasi rabbioso quando, giovane imbevuto di National Geographic, mi avventavo nei vicoli di Marrakesh nella vana ricerca di una location che non rigurgitasse di zainetti dei Pokemon. Ma i Pokemon erano dappertutto, e a pieno diritto: erano i miei preconcetti che non avevano diritto di essere li e pretendere una realta’ diversa (Avedon) che si genuflettesse al mio obiettivo.
Piano, piano, negli anni ho cominciato a comprendere alcuni concetti che ora, nella confusione generale del mio essere, sono inscindibili dal “viaggio”:
timore
sconcerto
ribrezzo
stanchezza
flusso
flusso
flusso
curiosita’
spaesamento
incontro
sollievo
mistero
mistero
mistero
Per me viaggiare e’ “andare” prima di tutto, e poi, molto, molto semplicemente solo “esserci”. Ed e’ viaggiare vero solamente quando sei solo, perche’ solo allora cogli appieno te stesso: non il mondo circostante, ma te stesso, e l’anomalia che tu rappresenti in quell’istante preciso, in quel preciso punto del pianeta.
Ed e’ allora, e solo allora che le tue percezioni si acuiscono, e cogli si, alla fine, ma cogli sempre quello che tu sei, non quello che hai visto. E quando cogli quello che hai gia’ visto prima di partire (il turista...) anche questo ti dice chi sei.
Insomma il viaggio non e’ comprensione, ma deliziosa, angosciosa esposizione di se’ al flusso di accadmenti estranei, una languida resa allo spaesamento, la gioia selvaggia ma prudentemente imbrigliata dell’esserci, il timore dell’incontro e il sollievo del dopo l’incontro, la curiosita’ per il diverso e il ribrezzo per il troppo diverso.
Le conoscenze personali, le letture precedenti, sono il remo per assecondare la corrente, non la scienza per comprenderne le cause, e il fine, il vero fine, sta nell’assaporare il momento, nell’avvertire, in un momento di percezione accentuata, il suolo straniero sotto la suola, il sole innaturalmente caldo sulla delcata pelle del collo, l’artiglio del gelo che ti assale sulla porta, le tue gambe, le tue gambe che costruiscono con tanta o poca energia il tuo immisurabile spostamento sul pianeta, tanto immisurabile quanto foriero di galassie di sensazioni diverse separate da pochi passi.
E questo era per parlare dell’India, che di per se’ probabilmente e’ un paese fremente di attivita’ economica (compresi i Sadhu, come hai visto bene) e cosciente del proprio speciale momento (India Unbound) che da un secolo ormai e’ quasi sicuramente avvezza a dare allo straniero (Karma Cola) esattamente quel che lui va cercando, dalla illuminazione spirituale alla commozione per gli emarginati, vera multinazionale di se stessa. Emarginati per chi ? Anche qui c’e’ rischio di una visione preconcetta: loro sono emarginati perche noi li consideriamo tali. Loro in realta’ vivono cosi, semplicemente (e non parliamo delle caste...). Vorrebbero stare meglio ? Anche io, agli occhi di Bill Gates, sono un povero merdone sfruttato con compensi da fame da un sistema di management da operetta.
Dunque, il viaggio come mistero. Il Viaggio e’ da soli, o con un “fixer” locale che non deve essere una guida professionista, se non per quei minuti strettamente necessari in quella particolare occasione, senno’ e’ vacanza, e in vacanza si devono avere diverse pretese: la stanza pulita, la Coca Cola Light (avrei una storia...), il tassista che non ti frega, il souvenir.
Tutte opinioni personali.
Un passo oltre, sempre con la macchina fotografica nella borsa.
Viaggiamo, s’e’ detto, e osserviamo, e di conseguenza sentiamo.
Dato per scontato che almeno qui siamo onesti e sinceri (senno’ c’e il Milan in TV) tutti, compreso Salgado, diciamo che quindi quello che noi vediamo (alcuni di noi hanno la loro attenzione attratta da certe cose, altri da altre) non e’ la realta’ (Avedon...) ma la nostra rappresentazione, necessariamente filtrata da noi stessi, verso noi stessi della realta’ stessa. Vediamo, “mettiamo dentro” la visione, la impastiamo con il “chi siamo” , con le nostre esperienze precedenti di vita, le nostre letture, le convinzioni etiche, morali e religiose che abbiamo, e poi “mettiamo agli atti” del nostro spirito una sensazione finale (non definitiva, solo finale). E credo che questo, se non fa giustizia perche’ non voglio arrogarmene il diritto, dovrebbe chiudere anche il discorso su cosa si fotografa e chi si fotografa (le belle ragazze, i “rovinati”, l’architettura, il paesaggio...), perche’ la domanda diventa oziosa: si fotografa quello che “si vede” compreso, caro Rush, il non voler fotografare. Le tue immagini sull’India, che a me piacciono in quanto le trovo disarmantemente oneste, sono lampanti fotografie sul non voler fotografare.Detto questo, va da se che non solo Rush, ma nessun’altro e’ Salgado. Ma non perche’ Salgado faccia belle le cose brutte, ma perche’ ognuno di noi e’ assolutamente se stesso, almeno quando ha la percezione. Poi, magari dopo la estrinseca uniformandosi a un codice, e talvolta questo codice gli e’ estraneo (o nemico...), ma questa e’ un’altra storia ancora.
Nel caso di Salgado, e credo in questo di interpretare il pensiero di Stefani, ma comunque quello che segue e’ il mio pensiero, nel caso di Salgado c’e a monte la profonda religiosita’ con forti ubriacature sincretiche di tutto il sudamerica, la visione biblica della vita di tutti i giorni, la manifestazione di Dio sotto forma di bellezza inaspettata, un grande teatro della vita che fa di una stessa immonda epidemia di vaiolo in un momento lo strumento per ridicolizzare la distinzione in caste, in un altro una saggia arma del destino, in un altro un inopinabile biglietto di transito della natura e della storia, in un altro ancora lo strumento divino della catarsi di una puttana (sto parlando di Jorge Amado, Teresa Batista stanca di guerra ) e via andare.
Salgado, a mio parere (e qui ci metto il link, o vado fuori tema) si muove “rappresentando” , in modo informato e cosciente ma evitando di trarre giudizi assoluti (Nachtwey lo fa, di sicuro) ed opponendo alla visione preconcetta e opportunamente rimossa dal timore e dal ribrezzo del fruitore occidentale (timore e ribrezzo che Nachtwey si incarica di riconfermare...), una altra visione della tragedia, una visione che, con sottile sconcerto e spaesamento da parte nostra, fa emergere un certo stato di grazia anche nei luoghi e momenti piu’ impensati, a suggerire una permeazione del mistero divino in tutti i viventi e nel flusso delle loro esistenze, fossero essi un garimpero appoggiato a un palo come un moderno crocefisso, o una nonna balcanica che accudisce la nipote con gesto elegante sotto un’ improvvisato riparo di nylon trasparente.
L’incontro con la fotografia di Salgado puo’ davvero essere rassicurante, di primo acchito, una forma di sollievo di ritorno, ma a lungo andare sconcerta e fa riflettere, anche sul livello minimo di necessita’ che l’umano abbisogna per poter sopravvivere.
A me Salgado fa viaggiare....