La Russia passa, nei tardi anni Novanta, all’economia di mercato e lo fa in modo disordinato, casuale ed episodico: i vecchi nomi della nomenclatura si riciclano e i soliti furbi si appropriano indebitamente di enormi fortune.
Prima che Vladimir Putin riprenda in mano il Paese per ricostruirne una coerenza, l’impero sovietico è costretto a rivedere i propri confini.
Prima i suoi confini fisici, esterni: perde l’Ucraina e le sue immense riserve di grano, le repubbliche del vecchio sogno panturco (Tagikistan, Turkmanistan, Uzbekistan, Kirghistan) e con esse riserve energetiche e minerarie ingenti.
Nello stesso tempo cambiano i confini sociali, interni: l’uguaglianza, almeno formale, dei tempi sovietici si scioglie in mille rivoli di corruzione, speculazione, arrivismo spregiudicato.
I forti si arricchiscono velocemente, mentre i deboli perdono le pur poche sicurezze che lo Stato garantiva loro ai tempi sovietici.
I vecchi, i contadini, gli operai delle fabbriche, gli insegnanti e tutti quelli che non appartengono alle categorie utili al “biznez” vengono inesorabilmente confinati ai margini della Nuova Russia che offre loro pensioni e stipendi inadeguati, ma inflazione annua reale del 20%.
Nelle loro facce (facce, non volti) la loro storia e le loro storie, la coscienza di avere vissuto tre cambi di regime in 100 anni senza che la loro vita sia apprezzabilmente migliorata.
Nello stoicismo più assoluto, sferzati da un clima impossibile, oppressi da carestie, malattie (vita media dei maschi adulti 55 anni) e governi lontani e sordi, hanno vissuto le loro vite di confine, al confine dell’esistere.
