La fotografia è “altro”

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cliqueur
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mauro ruscelli ha scritto: mer giu 02, 2021 1:21 pm Mi piacerebbe a questo punto anche avere alcuni tuoi suggerimenti o consigli sulle cose che hai ritenuto più interessanti in questo ambito.
Non so se mi sono anche solo avvicinato ad una risposta alla tua domanda. Tendo ad “allargarmi”. Resta centrale secondo me cosa cerchiamo.
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mauro ruscelli
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https://originiedizioni.com/books/out-o ... hizen.html

mi riferivo a lavori tipo quelli in italia di origini edizioni
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mauro ruscelli ha scritto: ven giu 04, 2021 12:30 pm https://originiedizioni.com/books/out-o ... hizen.html

mi riferivo a lavori tipo quelli in italia di origini edizioni
con gli inglesi ci siamo, quindi. Vero è anche che il materiale è completamente diverso. Ma credo che i nostri interessi non siano perfettamente congruenti.

Vediamo altro.
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Per Mauro.

Ho scoperto SelfSelf, piattaforma di crowdfunding per autopubblicazione, conoscendo un po' i tuoi lavori penso ti possa interessare.

Un po' distante rispetto alle mie preferenze fotografiche terra terra però interessante.
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mauro ruscelli
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:-)

grazie, avevo gia' visto qualcosa ma approfondisco..
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Perché gli altri dovrebbero interessarsi a quello che fotografo?

Questa è la domanda con la quale mi confronto continuamente. Quello che fotografo deve essere autentico, ovvero originale. Entrambi gli aggettivi nel senso stretto del termine: autentico e originale nel senso che abbia origine autenticamente da me stesso, l'autore.

E poi la fotografia riuscita, la sequenza, riesce a dirigere i sentimenti dello spettatore. Per avere un senso comunicativo, dire qualcosa.

Voglio vedere l'ennesimo tramonto, l'ennesima ripresa macro del bruco o della farfalla, l'ennesimo nudo che fa vedere più o meno, l'ennesima inquadratura dell'edificio in rovina?

È complicato usare la fotografia come linguaggio e comunicare qualcosa, ma è l'unico modo per non alimentare il fiume di fotografie già viste. Io già faccio fatica a farmi venire un'idea per un filo conduttore di base, figuriamoci poi trovare le immagini che servono per comunicare questa idea.

Paolo mi ricordava che di per sé la fotografia non ha sintassi né grammatica. Certo, ma c'è sempre la possibilità di classificare le singole foto e di attribuire loro un significato visuale o simbolico che contribuisce al messaggio.

Poi vi parlerò di Jacques Henri Lartigue e di come uno stile senza un punto di vista sia solo una sequenza di trucchetti.
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mauro ruscelli
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La fotografia non avrà una sintassi ma una grammatica si, parliamo dei vari errori che possono affliggere qualsiasi immagine, e che certo possono essere usati come nel linguaggio se si parla uno slang o in poesia. Esiste anche quella chiamata calligrafia che potrebbe essere lo stile del fotografo….
Insomma tante cose non mi convincono. In ogni caso non si fotografa per gli altri. Non io almeno. E paradossalmente non fotografare per gli altri o perché le guardino rende il tutto più interessante proprio per gli altri
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Sull’assenza di sintassi, grammatica, calligrafia in fotografia non sono così certo nemmeno io. Abschied (Paolo Vivani) pare che invece certo lo sia. Secondo me c’è un problema di definizioni. Perché per quanto riguarda la scrittura sappiamo tutti cosa rappresentano questi termini, nella comunicazione visuale è tutto molto ma molto più vago e indefinito.

La cosa che mi interessava veramente è il senso e l’interesse degli altri pur restando fedeli a se stessi, originali (noi l’origine) e autentici. È questa la vera prova. Non tanto se vi sia una grammatica o una sintassi. La fotografia ha i suoi linguaggi codificati: un saggio fotografico deve avere una struttura e un ritmo, lo stesso un editoriale. Lo stesso la ripresa di un immobile o la fotografia del cibo, la fotografia di moda, il reportage, l’urbanistica.

Poi bisogna saper rischiare. Perché se non rischi non buchi la carta. Ma come dice il fotocagometro, se il fotografo si capisce solo lui magari un dubbio se lo dovrebbe far pure venire. Quindi si autenticità e originalità, come sopra definite, ma entra in gioco anche la domanda iniziale "perché gli altri dovrebbero interessarsi a quello che fotografo"?

Interesse autentico, non il "compiacimento relazionale" che così spesso si nota: un like - comunque espresso - non si nega a nessuno, soprattutto poi se spero di averne uno in cambio.

E poi c’è un’altra cosa: non è sempre razionalizzabile il motivo per cui un lavoro buca la carta. Non si tratta di soggettività, assolutamente no, e nemmeno di punctum o studium. Lo vedi e lo sai. E basta. Così come osservi un lavoro debole e lo sai che è debole e che ci può essere il testo del critico più famoso in prefazione, ma resta debole.

E poi parleremo dei trucchetti. Di dove sono funzione dell’immagine o della storia e dove restano un espediente.
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mauro ruscelli ha scritto: gio lug 15, 2021 6:35 pm In ogni caso non si fotografa per gli altri. Non io almeno. E paradossalmente non fotografare per gli altri o perché le guardino rende il tutto più interessante proprio per gli altri.
Questa questione del "per chi si fotografa" è complessa e sfumata.
  • è ovvio che non si fotografa per i "like"
  • è anche ovvio che la complessità può essere non comprensibile ai più
  • come ho detto, ritengo si tratti di essere originali/autentici: originali nel senso di essere l'origine prima dei lavori che si propongono e autentici nel senso di non emulare qualcun altro (anche se siamo bravissimi arriveremmo solamente secondi)
È altrettanto vero che
  • per capire è indispensabile conoscere
  • non esistono scorciatoie: autori di grande originalità hanno chiaramente il loro percorso che li porta alle loro creazioni. Bruce Gilden, ruvido newyorchese di Brooklyn, fotografa con un grandangolo passanti sbattendo loro in faccia un flash. Ma questo tipo di fotografia l'ha sperimentato prima con la yakuza, operazione non proprio semplice. Non è che ora arriva chiunque e fa lo stesso possa aspirare allo stesso status di Gilden (per quanto possa piacere o non piacere)
  • certo, si fotografa per se stessi, ma poi bisogna vedere che senso ha questa fotografia: per capirci, è facile mettere in una categoria gattini, tramonti, tre cime di Lavaredo, baite in mezzo ai prati in quota (ogni riferimento a me è assolutamente voluto), ma poi ci sono le immagini flashate, mascherate, sfumate, mosse. Qui vi voglio a tracciare una linea tra quello che ha senso e quello che non ce l'ha.
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Ho trovato questo vecchio thread del 2009: FOTO SLEGATE TRA LORO: COME GUARIRE?

Ci sono diverse suggestioni che approfondirò. Posizioni coerenti con le opinioni espresse qui negli anni. L'idea ci vuole, implicita, esplicita, intuita, subliminale, inconscia.

Non credo si possa costruire una serie o sequenza se non si ha una qualche idea prima, se non altro decidendo dove si vuole andare a ricercare le fotografie che poi troveranno noi.
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E qui ho trovato un'altro stimolo di riflessione.
carlo riggi ha scritto: dom gen 18, 2015 10:56 am
sergio lovisolo ha scritto:Sei rimasto capace di giocare -creare- con niente
Grazie Sergio! E' vero quel che dici. Io non credo (quasi più) al valore documentale della fotografia, in un tempo in cui i media ci sommergono smodatamente con le loro slavine multimediali.
Credo però nella capacità della fotografia di far emergere quel rapporto intimo con le cose, anche con le cose da niente, che in certa misura può rappresentare ancora un "senso", uno di quei motivi per cui val la pena di vivere.
Il valore documentale perduto è certamente una considerazione molto attuale e vera (anche se il commento è di sei anni e mezzo fa).

La rappresentazione di "senso" evidenziando il rapporto intimo con le cose. Giusto, nella misura in cui riesce a dirigere i sentimenti dello spettatore. Altrimenti è la fattispecie della "slavina".
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il valore documentale non possiamo esprimerlo nel presente e l'opera del fotoamatore e' probabilmente irrilevante se non per usi familiari. Ci sono alle nostre spalle i grandi archivi fotografici, le agenzia di stampa, e tutto quello che ormai e' caricato in rete.

Non dico di non credere in un valore documentale, ovviamente ho e conservo gelosamente foto dei miei figli da piccoli, di piccoli e grandi eventi della mia vita o a cui ho partecipato. E questi sono ovviamente sinceri. Ho foto di tutti i miei viaggi ma da qui a chiamarli documentali o reportage ci vorrebbe troppo pelo sullo stomaco.

Io ho avuto la fortuna di vedere delle foto dall'archivio di Massimo Stefani, e credo che lui stesso non si renda conto dell'immenso tesoro che possiede, e che a mio avviso andrebbe trasformato dai singoli progetti di allora a una complessa pittura documentaristica della storia delle nostre terre. Ma lui e' sempre stato un fotografo piu' serio, o meglio un vero fotografo. Ma devo dire, e qui mi ricollego all'inizio, che e' il tempo e la continuità dell'opera che le ha fatte diventare documentaristiche, allora erano progetti, il carnevale di... i pescatori di... foto bellissime anche in quel contesto, e che forse per Massimo sono rimaste proprio il carnevale di... ecc. Io che non le avevo mai viste le ho lette in maniera completamente diversa, un'opera iconografica di questi luoghi. Potentissima. Che meriterebbe una pubblicazione con un lavoro complesso e certosino di editing che ne rompa l'idea con cui erano "progetto", proprio il progetto oggi a distanza di anni e' diventato il. vincolo e il limite che bisognerebbe trascendere.

Quindi forse il progetto ha senso solo in breve lasso di tempo, oltre il quale solo lo stile uniforme del fotografo esiste e permette di creare dal mare informe delle fotografie scattate sensi dialoghi e storie inaspettati e piu' veri e. sinceri del "progetto" che poteva esservi all'origine
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Penso che tutte le fotografie siano documenti. In un modo o nell’altro.
Non vedo nessuna differenza ontologica tra la prima fotografia nota di Niépce - i tetti - e qualsiasi altra scattata stamattina.

Ci sono i ricordi da fissare, le foto dei figli, della fidanzata, della scalata alla parete est del Gran Paradiso, la festa parrocchiale, la vacanza in Sardegna o il viaggio a Tokyo o a New York City. I documenti che generiamo semplicemente perché ci piace l'apparecchio o la tecnica fotografica.

Siamo nel nostro appartamento e fotografiamo, quel che ci colpisce. Lo rendiamo immortale, è molto probabile che l’immagine ci sopravviverà. Usciamo dalla porta di casa, osserviamo e riprendiamo. In senso stretto nessuna fotografia è uguale all’altra.

E se ontologicamente tutte le fotografie documentano, allo stesso tempo le possiamo inserire in categorie concettuali e formali omogenee. In senso lato tutte le fotografie sono state già scattate.

Mauro, pensa alle fotografie perdute. Ce ne sono infinite, i miliardi che ci colpiscono nel loro flusso inarrestabile. Che tutti incontrano per caso e nessuno (ri)troverà mai. Possiamo trovare solo le fotografie che classifichiamo, etichettiamo e riponiamo. E si perdono anche quelle, se non altro per disinteresse o distrazione.

Il tempo: congela. Rafforza l’irripetibilità dell'immagine che abbiamo davanti. La foto del nonno e della nonna a tavola al mare quaranta anni fa non si potrà più rifare, se non con altri nonni attuali al momento dello scatto e consegnati al tempo subito dopo. Percepiamo chiaramente la patina del tempo, sappiamo che quel soggetto lo vedremo solo in quella foto.

Le fotografie si possono fare bene o male, in modo interessante o così banali da essere sconcertanti, si possono fare con uno scopo o senza scopo. Non per questo la funzione documentale verrà meno.

Ma questo non serve per i documenti che creiamo noi, delle cose che ci colpiscono, dei soggetti che vogliamo conservare. Non serve per i supporti visuali alla nostra memoria, ci basta quello che è e che vediamo e come lo riprendiamo.

Se invece abbiamo l’ambizione che la nostra documentazione assuma carattere di universalità dobbiamo far entrare in gioco l’osservatore originariamente neutro, che non ha nessun legame conoscitivo o emotivo di partenza rispetto al soggetto.

E qui la questione si fa complessa perché devo trovare il modo di orientare le sensazioni del mio spettatore portandolo dove voglio io. Devo trovare il modo di associare alle immagine ed alla loro sequenza un metasignificato che abbia un qualche elemento di universalità.

Entra in gioco il fotografo che per istinto e consapevolezza costruisce il suo documento: scopo, tema, luogo, evento, forma, tecnica, ricerca. Una combinazione ineffabile di elementi originali che determina il risultato finale. Non ci devono essere tutti e non esiste alcuna calibratura del loro peso reciproco. Quasi un’alchimia.

Paolo Pellegrin, William Eggleston, Nick Ut, Philip-Lorca di Corcia, Philippe Halsman e decine di migliaia di altri hanno trovato la loro alchimia per documentare orientando i loro spettatori.

Lavorando su questa alchimia “il fotografo consapevole” diventa istintivo, non pensa e fa e facendo è alchimista.

Per questo tu dici di Massimo Stefani e del tesoro che ha. Massimo ha creato la sua alchimia ed i suoi lavori la mostrano. Il suo talento ed il suo istinto orientano le tue sensazioni ed emozioni, Mauro.

È importante quel che tu scrivi, ma credo che possiamo esprimere il valore documentale nel presente, oltre che attraverso il nostro sentimento personale - che non è universale - attraverso l’alchimia che descrivevo. E se c’è questa alchimia basata sul nostro istinto e sul nostro sapere il tempo diventa il nostro preziosissimo alleato nell’evoluzione verso l’universalità.

PS forse dovrei sostituire “comunicare” a “documentare”.
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I fotografi sono tanti, giovani e nemmeno tanto, bravi da essere premiati.

È interessantissima la mia esperienza di esplorazione di "nuovi" fotografi. In realtà non è che siano poi tanto nuovi e nemmeno tanto giovani. È che nella mia scarsa fantasia e attenzione finisco sempre su quelli classici che, essendo una garanzia dal punto di vista editoriale e della promozione culturale, vengono sempre spinti di più.

Negli ultimi anni molti italiani hanno vinto o hanno ricevuto riconoscimenti dal World Press Photo Award: Antonio Faccilongo, Gabriele Galimberti, Lorenzo Tugnoli nel 2021, Niccolò Filippo Rosso, Luca Locatelli (anche al Leica Oscar Barnack Award), Fabio Bucciarelli, Marco Gualazzini, Daniele Volpe, Giulio di Sturco, Francesco Pistilli, Fausto Podavini, Alessio Mamo, Francesco Comello, Giovanni Capriotti.

E questi sono solo gli italiani, non per un malinteso senso nazionalista, ma solo per adottare un qualche criterio. Perché i fotografi professionisti bravi e affermati, che sanno come creare storie e proporle a media di tutto il mondo, sono tantissimi.

Si tratta solo di guardare, cercare un po', con lo sguardo avanti.
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Io, come molti altri, ho espresso la mia opinione - talvolta articolata, talvolta (molto) frettolosa - su una immagine presentata qui o in qualunque altro luogo on-line.

Non si dovrebbe, ma si parte sempre dalla reazione soggettiva. Il tanto vituperato "I like it" o "I don't like it". Facile, immediato, superficiale. O anche no. Tutto sommato il "mi piace" non è disconnesso dal se, da quello che sono, da quel che so e che ho visto. Dalle mie esperienze generali e particolari.

Il fatto è che "I like it" ha un contenuto di informazioni assolutamente limitato. L'unica cosa che possiamo dedurre e che quel che faccio piace a una, poche, molte, moltissime.

E poi ci sono i "finti commenti", sempre compiacenti, che parlano di tutto tranne che della fotografia che vediamo e della sua funzione, del suo senso. Non sono altro che dei "I like it" mascherati, formulati in maniera tale che chi riceve il commento si senta gratificato. Ma a leggere bene non dicono nulla, non dicono nemmeno "mi piace". Parlano di altro. Di conoscenza generale del soggetto rappresentato, di fugaci sentimenti soggettivi. Questo si osserva sui forum, ma anche nelle prefazioni ai libri di fotografia. È un'arte compiacere senza farsene accorgere.

Se parlo di una fotografia la funzione dovrebbe essere maieutica. Ma lo è solo se l'autore della fotografia è consapevole, desidera e cerca questa dinamica. In genere sulle piattaforme on-line presumiamo che sia richiesto un commento che persegua una relazione maieutica, ma non è detto, assolutamente. Perché chi posta si aspetta “I like it”, altrimenti si offende.

Il confronto più duro, ma che per fortuna o per sfortuna è risparmiato alla maggior parte di noi, è con chi si avvale della nostra fotografia. Che ha in mente uno scopo ed una funzione precisa, un utilizzo.

E che non spiega, si limita ad accettare o a respingere.

Tutto qua.

Io non commento più.

PS Comunicare con la fotografia non può che far leva sulla maieutica, che ci fa scoprire in modo autonomo la conoscenza che è già presente in noi e che dinamicamente accumuliamo: su ciò che vogliamo comunicare, su come lo comunichiamo, in modo da orientare e influenzare la percezione dei nostri spettatori.
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