In quanto iniziatore di questo gioco, non solo mi associo a quanto scritto da Luca, ma continuo la discussione in italiano, riprendendo il filo del discorso dall'ultima formulazione proposta della questione dibattuta.
Cercando individuare il nocciolo della differenza - ammettendo che essa esista - fra la fotografia e le altre forme di espressione visiva, Luca conclude il suo ultimo intervento con la duplice domanda: E' qualsiasi forma di espressione artistica indissolubilmente condizionata dal livello di controllo esercitata dal creatore dell'opera? E se così è, dobbiamo partire dal presupposto che la fotografia permette un livello di controllo inferiore?
In sostanza, se la risposta alla prima domanda è negativa, svanisce ogni ragione di introdurre una distinzione essenziale fra le arti figurative e la fotografia. Qualora invece il livello di controllo fosse dirimente, si tratta di stabilire se realmente il fotografo ha meno margini di libertà del pittore o dello scultore, ed inoltre se questa differenza è tale da giustificare una categorica separazione concettuale.
Tento ora di rispondere a queste due domande, cominciando con l’osservare che il livello di controllo esercitato dal creatore nel campo delle espressioni tradizionalmente considerate come artistiche è estremamente vario. Esso è massimo quando - come per esempio nella scultura in marmo - qualsiasi deviazione non desiderata dall’intenzione dell’artista è irrimediabile. All’opposto esso può essere molto debole se, intenzionalmente, l’artista conferisce alla casualità un ruolo espressivo: si pensi a Jackson Pollock o a Shozo Shimamoto.
Anche limitandosi al solo campo delle opere grafiche, tutti i gradi intermedi fra questi estremi sono documentati. Certo, c’è una indubbia deriva storica verso margini di manovra sempre maggiori, ma non mi sembra che un criterio puramente quantitativo sul livello di controllo possa essere dirimente. Dopotutto anche in fotografia c’è una grande latitudine quantitativa fra Ansel Adams che controllava le effemeridi prima di decidere in che giorno dell’anno ed in che ora fosse meglio riprendere i soui paesaggi (che Cartier-Bresson considerava cartoline) e Sergio Larrain che lasciava libero corso alla sua estemporanea sensibilità poetica nel decidere come raccontare Valparaiso con la sua Leica (Cartier-Bresson lo volle alla Magnum).
Per ipotizzare un discrimine sostanziale fra arti visive e fotografia, altri, più precisi criteri mi sembrano maggiormente pertinenti. Innanzitutto noto che nel caso delle arti visive è l’artista e solo l’artista a decidere il livello di controllo che, quale che esso sia, egli giudica adeguato. E la decisione è a volte sorprendentemente idiosincratica. Formato alla scuola dei miniaturisti romani, El Greco non smise mai di usare i pennelli più fini disponibili anche quando in seguito in Spagna gli furono commissionati quadri di grandi dimensioni, mentre – come è stato documentato da Dora Marr - intere porzioni di “Guernica” furono dipinte da Picasso con un pennello usato per affiggere i manifesti. Invece, una volta scelta la focale e la sensibilità della pellicola o del sensore – e molti dei più grandi fotografi si sono neanche avvalsi di questa possibilità di scelta – la macchina fotografica è in se uno strumento guidato da una logica interna fisico-meccanica sulla quale il fotografo, che si tratti di Adams o di Larrain, non esercita alcun controllo.
Tuttavia, per quanto significativo possa essere questo primo criterio, credo che il vero discrimine fra arti visive e fotografia sia da cercare altrove. Dimentichiamo per il momento pennelli e obiettivi e vediamo cosa si può fare con uno stesso strumento, un semplice paio di forbici. Se sono Christian Dior le uso per ritagliare nella stoffa quella forma originale e irripetibile che ho in mente per creare un nuovo modello; poco importa naturalmente dove nella pezza io decida di ritagliare: Il messaggio è il taglio non la stoffa. Se sono Georges Braque uso le forbici per ritagliare qualche titolo di giornale da inserire come elemento di un collage. Magari dovrò stare attento a scegliere un frammento della dimensione giusta e a non moncarlo, ma in fondo un titolo vale l’altro. Se infine sono Mario Rossi appassionato di critica musicale, prima scelgo nel giornale un articolo interessante e poi lo ritaglio sapendo che i bordi potranno essere abbondanti e magari anche irregolari, ma che devono comunque contenere ciò che mi interessa.
Il parallelo è suggestivo ma non perfetto in tutte le sue articolazioni. Se l’esempio di Dior descrive abbastanza fedelmente la situazione del pittore di fronte alla tela bianca, e se quello di Braques richiama l’uso artistico della fotografia come tecnica mista, il caso di Mario Rossi è solo in parte assimilabile alla situazione della fotografia. Certo, in molte fotografie è evidente il criterio con il quale l’autore ha separato ciò che gli interessava prelevare (l’articolo del signor Rossi) da ciò che ha intenzionalmente lasciato fuori, ma esistono anche splendide fotografie - come questa di Larrain – dove l’esclusione è parte integrante del messaggio espressivo. In ogni caso però, che si tratti o meno di fotografie “ben fatte”, rimane il fatto che lo scatto preleva comunque una parte del mondo visibile che al contrario della stoffa e della tela bianca possiede una struttura significativa e non modificabile dal fotografo.
Resta da capire perché un articolo di giornale mal ritagliato non serve a niente mentre l’immagine di Larrain è un capolavoro. Una possibile spiegazione è che, anche se una fotografia è ineluttabilmente statica al pari di qualunque altra immagine grafica, essa possiede a volte intrinsecamente una valenza dinamica molto superiore a quella di un disegno o di un quadro. I pochi centesimi di secondo prelevati (“ghigliottinati” secondo la famosa definizione di Cartier-Bresson) dalla realtà e congelati nell’immagine alludono a quel prima ed a quel dopo che effettivamente nella realtà sono esistiti. Questa espansione apparentemente paradossale di un singolo istante ha origine dal modo in cui funziona il nostro apparato percettivo che, evolutivamente, si è sviluppato per rappresentare e prevedere reali eventi dinamici. Non è quindi sorprendente che questo fenomeno di espansione temporale sia particolarmente vivido nelle immagini che rappresentano soggetti umani, come nel caso della fotografia di Larrain.
Noi sappiamo che nella realtà quel volto mostrato solo in parte un instante dopo sarà completamente visibile ed in effetti è proprio così che lo percepiamo. Credo in effetti che una tale operazione inconscia dell’apparato percettivo e la tensione dinamica che esso genera siano una delle ragioni per le quali quella fotografia è così affascinante. Una simile espansione temporale è presente in moltissime altre fotografie famose. Guardando il celebre omino di Cartier-Bresson sospeso sopra la pozzanghera, sappiamo che ci finirà dentro e così lo percepiamo; così pure in questa altra sua immagine sappiamo che fra un attimo il ciclista sparirà perché nel mondo reale le biciclette non possono fermarsi all’improvviso: da millenni abbiamo interiorizzato l’effetto della gravità e della legge d'inerzia.
Allo stesso modo, nel ritratto scattato da Newton a sua moglie June in un bistrot di Parigi percepiamo il movimento di sfida della testa con cui ella accendendo una sigaretta risponde alla provocatoria richiesta del marito di mostrare i seni perché è capitato anche a noi di fare quel movimento in un momento di imbarazzo.
Se è valida questa spiegazione del perché ciò che in una fotografia è obbiettivamente omesso non solo non viene percepito come tale, ma l’esclusione – poco importa se intenzionale o casuale - può essere un valore aggiunto dell’immagine; se, più in generale, il nostro sistema percettivo ci permette di estrapolare da una singola immagine fotografica eventi già trascorsi o non ancora avvenuti, allora si spiega anche perché l’espansione dinamico-temporale è meno forte nelle altre forme di rappresentazione visiva.
A dispetto della crescente facilità con la quale è possibile manipolare le immagini, stravolgendone a volte completamente il messaggio, resta incrollabile la disponibilità di chi osserva una fotografia a credere in ciò che vede. Non c’è niente di strano in tale persistente fiducia. Il sistema di controllo sociale (carte di identità, foto segnaletiche, telecamere), il commercio a distanza (Amazon, eBay), la trasmissione delle memorie private (foto di vacanze, selfies) e la stampa (giornali, riviste) concorrono a cementare questa fiducia alimentando quotidianamente il circuito della comunicazione visiva con miliardi di immagini sostanzialmente veridiche. Il fatto noto ed accettato che esistono immagini truccate non scalfisce la coscienza che l’interazione sociale collasserebbe se nessuno credesse più alla fotografia, così come capiterebbe se nessuno credesse più a quello che la gente dice. In fondo, come le bugie sono possibili solo perché normalmente si dice il vero, così la produzione di immagini truccate è la migliore dimostrazione che normalmente le fotografie non mentono.
Per molte ragioni l’atteggiamento dell’osservatore verso le creazioni artistica è radicalmente diverso. La più importante fra esse è che, non solo è intrinseco alla natura delle creazioni artistiche il poter descrivere eventi simbolici immaginari, ma che in realtà questa possibilità è sempre stata altamente apprezzata. Esemplare è il caso dei ritratti nei quali la ricchezza e la potenza dei committenti è magnificata dalla presenza di allegorie sacre, ed il realismo con cui è reso il personaggio storico convive con contesti di pura fantasia. Così nel celebre quadro di van Eyck, anche se, naturalmente, nessuno crede che questo incontro sia realmente avvenuto, è perfettamente accettabile che il Cancelliere Rolin, qui rappresentato con fotografico realismo, sieda di fronte all’immagine convenzionale e simbolica della Vergine Maria.
Pur se in misura minore, lo stesso senso di estraniamento dalla realtà è percettibile anche nei disegni con cui i periodici del primo Novecento illustravano reali eventi di cronaca.
Sarebbe ingeneroso incolpare l’autore di questa illustrazione di non essersi reso conto che la fiammata del revolver non può essere simultanea alla contorsione dell’uomo colpito. In realtà l’illusione della contemporaneità è qui funzionale alla necessità di rendere l’evento cognitivamente interpretabile, cosa che peraltro solo in casi eccezionali sarebbe stata possibile con una fotografia.
L’atteggiamento diverso con il quale l’osservatore si pone di fronte ad una creazione artistica o ad una fotografia dipende anche, più sottilmente e magari inconsciamente, dalla diversa modalità di formazione dell’immagine. Tutti sanno che l’immagine fotografica risulta da un processo fisico ineluttabile e molto rapido non controllabile dal fotografo e che, al contrario, qualsiasi creazione artistica richiede tempo, dando all’artista l’opportunità ad ogni tappa del processo di scegliere fra infinite soluzioni alternative. La durata del processo creativo nel corso del quale, con un’artificiale compressione del tempo, si genera l’illusione di aver catturato un instante è la porta larga attraverso la quale irrompe la personalità dell’artista, marcando ineluttabilmente l’immagine, in maniera molto maggiore di quanto sia possibile in fotografia con la scelta del soggetto da prelevare e del modo di inquadrarlo. Se guardando un quadro, guidati dall’immaginazione creativa dell’artista, ci aspettiamo di accedere ad una verità concettuale - quel genere di verità compatibile con la presenza della Vergine Maria nello studio del Cancelliere Rolin - ad una fotografia richiediamo di poter vivere l’illusione di essere al posto del fotografo.
PS: Enrico buona Pasque anche a te! Però fra chinotto e nebbiolo non c'è partita: nebbiolo tutta la vita!